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Il verismo fantastico di John Lasseter

L’effetto speciale, in un film girato con attori in carne e ossa, per quanto possa essere realizzato ad arte, crea sempre in chi lo vede un senso di irrealtà. Non si tratta di un fenomeno negativo anche perché gli effetti speciali, soprattutto quelli in computer graphics del cinema contemporaneo, vengono utilizzati in maniera più evidente in opere dal carattere fantastico e la sensazione di un’intrusione artificiale si smarrisce nella cornice favolosa in cui l’effetto è contenuto.

Sono pochissimi i registi di un “cinema della realtà” che hanno utilizzato la computer graphics in maniera tale da non squalificare il verismo del racconto, tra questi il maestro del cinema Éric Rohmer nel suo La Nobildonna e il duca. Si tratta di un film sulla rivoluzione francese dove i panorami sono così esplicitamente artificiali da creare nello spettatore un sentimento simile a quello suscitato dalle scenografie teatrali. Se l’effetto speciale non è dissimulato e mimetizzato per sembrare vero, paradossalmente, lo diventa.

Quando invece è tutto artificiale e il film è un effetto speciale dall’inizio alla fine le cose cambiano drasticamente e si penetra in una realtà della rappresentazione diversa, ossimorica ma affascinante, quella del verismo fantastico. Perché quando ogni cosa è finzione l’effetto cessa di essere “speciale” ed è elemento inconfondibile da tutto ciò che lo circonda. Nulla è più finzione quando tutto è finto.

Molte scene di Up, di cui John Lasseter è executive producer, dimostrano quanto scritto sopra: la finzione è così palese che l’artificio si annulla, così da rendere ciò che si vede “reale”. Tuttavia per essere credibile un film in computer graphics deve sottostare alle stesse leggi fisiche su cui si regge l’universo, all’anatomia degli animali che lo abitano, alla coerenza degli habitat e delle architetture che lo occupano. Altrimenti sarebbe un film surreale e il racconto sarebbe sostituito da un significato ermetico celato tra le immagini, come in un quadro cubista.

I giocattoli senzienti che abitano Toy Story, diretto da John Lasseter nel 1995, sono vivi non perché si spostano da soli e parlano ma perché i loro gesti e le loro posture sono plausibili; qualsiasi sia la loro forma essa risponde sempre ad una serie di movimenti giustificabili dall’anatomia dell’oggetto animato. I corpi sono fantastici ma le azioni che compiono sono vere e realistiche. Inoltre se si osserva lo scenario oltre i giocattoli vi si nota immediatamente l’assenza totale di qualsiasi accenno alla caricatura. È uno scenario estrapolato dalla quotidianità, fedele ad essa in modo foto-realistico ma che non entra in conflitto con l’intreccio fantasioso del film proprio perché i personaggi giocattolo lo abitano con dei corpi “possibili”.

La corsa delle macchine di Cars 2, regia di Lasseter del 2011, è come quella di un’automobile reale perché come qualsiasi vettura è sottoposta alla forza di gravità, all’attrito e alla forza centrifuga. L’auto antropomorfa è trattata dagli autori del film come un qualsiasi vettore sottoposto ad una accelerazione cinetica e per questo il suo viaggiare risulta così credibile che il fatto che le macchine possano vedere il mondo con grandi occhi espressivi e comunicare dal parafango, una evidente e magnifica finzione, cessa di essere una fantasia e diviene un fenomeno naturale.
Anche la città attraverso cui si muove l’automobile è rappresentata con estremo realismo e la prospettiva delle sue architetture urbane possiede la matematica precisione di quella teorizzata nel De Pictura di Leon Battista Alberti.

Attraverso la coerenza scientifica della sua visione artistica John Lasseter ha operato come nessun altro il miracolo poetico di farci percepire e accettare come vero qualcosa che invece è totalmente fittizio, affinché le storie raccontate nei suoi film possano essere vissute emotivamente in tutta la profondità del loro intreccio.

 

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