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Droni e big data contro il virus. E la nostra libertà?

Si chiama Innova per l’Italia ed è la campagna che il Governo Conte ha attivato per stimolare le aziende e i professionisti del digitale a trovare una soluzione tecnologica per aiutare a sconfiggere la pandemia di Coronavirus. A vincere è stata Immuni, la proposta del “collettivo” composto dalla software house Bending Spoons, dal Centro Medico Santagostino e da Jakala, società di marketing tech anch’essa con base a Milano.

Immuni – di cui scriviamo ampiamente qui – dovrebbe aiutare il nostro paese nel contenimento del contagio.

Le App per questo scopo esistono già e sono ampiamente utilizzate in Corea del Sud e in diversi altri paesi del mondo. Guardando a casa nostra, a fine marzo il presidente della regione Veneto, Luca Zaia, ne ha sdoganato l’uso. Qualche giorno fa l’ha seguito anche la Lombardia, lanciando AllertaLOM per mappare la diffusione del Covid-19.

Gli utenti dell’App possono compilare un questionario per raccogliere dati anagrafici e sanitari in forma anonimizzata, da  mettere a disposizione dell’Unità di Crisi regionale per studiare e possibilmente limitare il contagio sul territorio.

Sotto alcuni screenshot del questionario dell’app AllertaLOM.

Alle App regionali si aggiunge l’utilizzo di droni da parte delle polizie locali per avvistare gli assembramenti di persone e far rispettare il distanziamento sociale. Insomma, una sorta di “Grande Fratello” virtuale che segua e  sorvegli la popolazione allo scopo di verificare se i contagiati escono, ma che, inevitabilmente, registra i comportamenti di tutti quando varchiamo la soglia di casa.

Sono circa 300 le candidature di progetti giunti alla task force di Innova per l’Italia che utilizzano come mezzo lo smartphone, una sorta di gps portatile i cui dati, incrociati ad esempio con quelli della carta di credito, daranno alle polizie la conferma di dove siamo andati e perché.

Un data mining che, tuttavia, pone diversi problemi, soprattutto legati alla privacy. Antonello Soro, garante per la protezione dei dati personali, è stato chiaro: «una cosa è l’utilizzo dei dati dai social, che non danno informazioni profonde, ma superficiali, una cosa è entrare nelle vite delle persone. Soprattutto perché non si può e non si deve scegliere tra salute pubblica e tutela della privacy».

Non si può rischiare uno scandalo come quello scoperchiato da Edward Snowden negli USA – quando, dopo l’11 settembre, la sorveglianza digitale fu utilizzata con la scusa di proteggere gli americani dal terrorismo – o tantomeno il controllo di uno stato di polizia come quello della Cina.

Lì, già un mese prima di noi, era stato il presidente Xi a stimolare l’utilizzo di big data e intelligenza artificiale per aiutare ad arginare la diffusione del virus: un appello accolto dalle più grosse aziende del settore per controllare i movimenti dei cittadini, sapere se chi ci circonda è positivo, o addirittura misurare la febbre a distanza.

Ma, si sa, la Cina di fatto non è lo stato che più brilla per libertà democratiche e di comunicazione. Da noi ci sono dei rischi? Bisogna preoccuparsi? Abbiamo chiesto il parere di un esperto autorevole.

«In queste nuove app simili a quelle della Corea (che, a differenza dell’Italia, oltre al monitoraggio digitale, ha fatto i tamponi in larga scala per combattere il contagio, ndr) se da una parte ci viene dato qualcosa, che sia un senso inappropriato di sicurezza, o l’informazione sulle code al supermercato, di norma ci viene sottratto altro – ha commentato Fabio Massa, Presidente dell’Associazione Nazionale Giuristi e Informatici Forensi (ANGIF), esperto in Digital Forensics e Cyber Intelligence. – i dati personali sono l’anticamera della libertà, per questo sono fortemente tutelati nei paesi democratici».

In effetti, come conferma anche l’avvocato Elena Bassoli di ANGIF: «la dicotomia tra sicurezza e privacy in realtà è più apparente che reale, visto che proprio con strumenti come i test di positività si riuscirebbero a raggiungere risultati maggiormente precisi, senza alcuna compressione dei diritti fondamentali. È auspicabile che di questo il legislatore tenga conto, perché la storia ci insegna che una volta che i diritti fondamentali dei cittadini vengono compressi, risulta poi molto difficile riuscire ad operare il percorso inverso». Il dibattito è dunque più che aperto.

Laura Marinaro, giornalista e scrittrice

 

Foto in apertura: Flickr | Patrick Johnson

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