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#MEET Henry Jenkins | Around Reading

Fan egli stesso della lettura, indaga ogni giorno che cosa significa. “È una pratica sociale, plasmata dalla nostra passione” – così dice. La lettura è come una conversazione, l’importante è lasciarsi coinvolgere. Vogliamo leggere in modalità cross-mediale, ma anche scrivere così.

Henry Jenkins è cresciuto in Georgia negli anni ’60, in un periodo veramente duro per quanto riguarda la segregazione razziale. Ha avuto l’opportunità di entrare “in un mondo diverso” grazie alla televisione, gli piaceva la “differenza”, la “diversità”. È stata una parte molto importante della sua vita, ha iniziato a scrivere per trasmettere al lettore cosa volesse dire leggere da fan. “Per me il fan era un consumatore di media”. Il padre gestiva una società edile, lo sfidava ripetutamente, “quando vedo un edificio, posso dire che l’ho costruito io, tu per cosa sarai ricordato?” Purtroppo il padre non è vissuto abbastanza a lungo per leggere i suoi libri.

Jenkins racconta la sua passione per l’interpretazione delle storie, “proprio come fanno i bambini”: è una sorta di personificazione importante, un’esperienza fisica. “Dimostrare che siamo entrati dentro ad un libro, è un’abilità”. I fan si permettono tanta libertà di interpretazione. Molto spesso ai ragazzi viene imposta la lettura, in un contesto che spesso blocca la possibilità di giocare con le storie, con le parole, con i personaggi. Se hanno la possibilità di immergersi a pieno nella storia, i lettori diventano direttori, possono creare un sistema complesso: il beta reading – sono i fan che scrivono storie, che hanno un feedback della loro operazione. Non si tratta solo di stile: in un mondo fatto solo di scrittori perfetti, tutti saremmo scoraggiati. Gli scrittori di un certo livello crescono ancora, ma la cosa importante è fare narrativa nuova, con persone che portano le loro storie sempre ad un livello più alto.

Scrivendo gli ultimi libri, Jenkins si è interessato alla letteratura transmediale. Nel momento in cui diamo ad un bambino un giocattolo che raffigura un supereroe, un personaggio del suo cartone preferito, gli diamo il permesso di diventare attore. Il fatto stesso di sentirsi dire “fai tu la storia” è incredibile. Guerre stellari di sicuro è molto diverso da un videogioco o da un film, sono literacy diverse – serve dunque un’alfabetizzazione diversa. Guerre stellari è solo un esempio, abbiamo anche tutto l’universo Marvel da citare: ogni settimana arrivava una storia nuova, fatta di personaggi principali e secondari, spettacoli televisivi, film: è da sempre un sistema molto elaborato. “È anche grazie a tutto questo universo, che la nostra immaginazione ha la possibilità di portarci fuori dalla vita normale”.

Il sistema del gaming ci insegna qualcosa?

Quando i bambini fanno i compiti e non riescono a risolvere problemi, la soluzione è smettere di provarci e andare a dormire. Ora invece con i videogiochi, i bambini imparano il problem solving, ci provi, cadi, ti rialzi. Non sempre riesci a superare i livelli del gioco al primo colpo. A scuola i bambini hanno paura di provare, proprio per la paura dell’insuccesso, spesso demonizzato. “Nei videogiochi ci provano, ed entrano con questo canale nella sfera educativa”. Una caratteristica positiva dei videogiochi è il fatto che sappiamo cosa stiamo imparando, dove dobbiamo arrivare. Cosa che invece, a scuola, non sempre succede: lo studente torna a casa, si fa delle domande, non riesce a mettere in pratica quanto imparato in teoria perché non sa in modo concreto quando e se questo materiale gli sarà utile. La concretezza di cui un adolescente ha bisogno, spesso la trova nei videogiochi quando capisce come navigare all’interno.

Henry Jenkins ha da sempre cercato di sviluppare sistemi educativi che gli permettessero di insegnare meglio, ha imparato davvero molto in un dibattito infinito: “internet rende i ragazzi stupidi?” – questa era la domanda alla base dei suoi studi. Ma la domanda fondamentale è cosa facciamo noi con i media, non cosa fanno i media con noi. “Sono le scelte che facciamo la vera posta in gioco”. Ogni volta si parla di screen time, del fatto che dobbiamo ridurre il tempo davanti ai device, ma secondo Jenkins non è tanto questo, quanto appunto più riflettere sul come questo tempo viene utilizzato. È questa la domanda fondamentale quando si parla di creare rapporti con il contenuto.

Tornando indietro di due anni, era facile pensare che i media ci isolassero. “Durante la pandemia i media ci hanno connesso, senza Zoom e compagnia non avremmo avuto la didattica a distanza, lo smartworking. Tutto ciò di cui ci lamentavamo, ci ha salvato”. Si tratta di guardare con occhi diversi ad una nuova alfabetizzazione, concetto che ha al centro l’idea della cultura partecipativa. “La partecipazione è il cuore pulsante di ogni fan” – ci dice Jenkins, non ci sono barriere, “le persone fanno cose, condividono, non solo dal più grande al più piccolo. Questo limite non c’è. Potete essere chiunque”. Ecco dove sta il grande potenziale di apprendimento. Grazie ai nuovi media, passa anche il concetto di apprendimento informale, che comunque continua a comprendere quella tradizionale.

“Dobbiamo leggere parole ed immagini, non dobbiamo accantonare alcune capacità, ma le dobbiamo stratificare. C’è connettività e interconnessione tra di noi”.

Tutto questo è stato creato per collaborare. Non resta che affrontare quelli che Jenkins individua come tre problemi fondamentali: il divario partecipativo (sessismo, omofobia, povertà, mancanza di accesso alle tecnologie), la trasparenza (siamo assorbiti dai media e nei media, spesso non ne capiamo le caratteristiche profonde) e la sfida etica (diamo ai giovani la possibilità di far sentire la loro voce).

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