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Storytelling e AI. Le sperimentazioni in corso

Estratto di Storytelling e intelligenza artificiale. Quando le storie le raccontano i robot di Joseph Sassoon.

1. Perché l’intelligenza artificiale

 Una giovane professional ottiene il tanto sognato posto di lavoro in un’azienda di successo. Ma quando incontra l’affascinante e misteriosa manager che sarà il suo boss e incomincia a capire qualcosa di più su quel che succede in quegli splendidi uffici, si rende conto che le cose non corrispondono esattamente a quel che si aspettava. L’inizio di Working Girl, il famoso film con Melanie Griffith e Harrison Ford? No. Malgrado le somiglianze, la situazione e il plot sono molto diversi.
La storia si svolge nel prossimo futuro e la ragazza è entrata a far parte di uno studio di animazione digitale, nel quale scopre presto un processo così machine-driven che è arduo dire chi – o cosa – detiene il controllo finale sui film prodotti e manipola la loro ricezione.

Il video è un corto di 12 minuti intitolato Real Artists che ha vinto da poco un premio all’AT&T Film Awards a Los Angeles. Opera prima della regista Cameo Woods, questo video si basa su un romanzo breve dello scrittore Ken Liu che affronta la tematica dell’AI in una prospettiva distopica. In un’intervista online a KQED Arts peraltro la regista, che ha un background in neuroscienze e AI, si dichiara molto ottimista sul futuro degli sviluppi digitali: “Stiamo già usando l’AI nel filmmaking. Usiamo l’AI per fare i trailer, scrivere sceneggiature e anche analizzare gli script. Penso che a mano a mano che l’AI diventerà più intelligente e sottile, vedremo sicuramente più impieghi di analytics e algo- ritmi nelle sceneggiature e nella produzione” (KQED Arts, 2018; trad. nostra). Questo esempio è solo un piccolo indicatore. Un film breve che tratta il tema storytelling e AI – il tema al centro di questo libro – di per sé non prova molto. Ma evidenzia che, nella comunità degli storyteller, tale connessione è ben presente e, stando alle parole di Woods, si è già tradotta in pratiche diffuse.

Al tempo stesso la regista mostra di essere consapevole delle problemati- che che il film solleva. Nella medesima intervista nota che: “È molto umano credere che il merito artistico si basi sulla nostra umanità. Non ci piace l’idea che l’intelligenza artificiale (AI) possa fare film migliori di un autore umano. Per cui il mio film riguarda soprattutto il modo in cui le persone potrebbero reagire venendo a sapere che una rispettata società di animazione sta usando l’AI per fare i film che amano tanto” (trad. nostra). Su questi nodi il discorso è aperto. E lo è perché in effetti l’intelligenza artificiale è già attiva sul terreno dello storytelling – ovviamente non senza sollevare questioni di cui merita tenere conto. Di questo le prossime pagine forniranno molti esempi. Riflettendo preliminarmente sull’argomento merita notare che, dopo un lungo periodo in cui se ne è parlato come di un’eventualità remota, da alcuni anni in qua l’intelligenza artificiale sta entrando nelle nostre vite da ogni lato.

Oggi l’AI ci permette infatti di: ottenere le famose raccomandazioni così mirate di Amazon sui libri e le cose che ci possono interessare; interagire con bot via via più capaci di informarci e intrattenerci come Alexa o Siri; leggere tranquillamente nella stampa articoli informativi scritti da macchine (come rilevato); disporre di servizievoli nursebot, pronti a prendersi cura di noi a casa nostra; evitare code su strade affollate grazie ad app capaci di apprendere come Waze; trarre vantaggio dai progressi accelerati che molte società farmaceutiche stanno ottenendo da algoritmi intelligenti nell’R&D per la cura di malattie; usufruire di una quantità di prodotti realizzati in modo più economico con il contributo di robot industriali sempre più capaci e sofisticati; farci condurre dove vogliamo senza sforzo da una delle driverless car che stanno entrando sul mercato.

L’elenco è drammaticamente incompleto, poiché in realtà l’intelligenza artificiale sta diventando una presenza trasversale, quasi ubiqua nell’esperienza umana. Tenuto conto di questo, la domanda diventa: perché l’AI non potrebbe/dovrebbe occuparsi di storytelling?

2. Algoritmi e musica klezmer

La musica klezmer rappresenta la tradizione musicale degli ebrei ashke- naziti dell’Europa Orientale. Il genere era originariamente composto da mu- siche strumentali che accompagnavano balli e matrimoni. Fondato soprattutto sul violino e il clarinetto, più altri archi e ottoni, lo stile klezmer fonde in sé strutture melodiche che provengono dai Balcani, la Polonia, la Russia, ovvero i Paesi in cui l’ebraismo ashkenazita ha vissuto per secoli.

Arrivando negli Stati Uniti con gli immigrati di lingua yiddish sul finire dell’Ottocento, il genere si è poi in parte contaminato con il jazz. Allegra, ironica, scatenata, o a volte struggente, la musica klezmer non è proprio semplicissima da replicare da parte di chi non appartenga a quella cultura. Recentemente però qualcuno ci è riuscito, e ovviamente si tratta di un algoritmo. Un’applicazione di AI in campo musicale che è in grado sia di analizzare in cosa la musica klezmer si differenzia da quella irlandese, per esempio, sia di creare pezzi nuovi in entrambi i generi.

L’esercizio è complesso su vari fronti. Pure la musica tradizionale irlandese è strumentale, accompagna spesso balli e usa strumenti simili. Un conto poi è fare in modo che l’intelligenza artificiale “smonti” una partitura musi- cale per comprenderne le regole; un altro conto è che riesca a produrre dei pezzi originali in quello stesso stile. Ma nel 2017 un gruppo di musicisti e studiosi di neuroscienze dell’École Polytechnique Fédérale di Losanna, ha annunciato di aver raggiunto proprio questo risultato. Come? Sotto la direzione di Wulfram Gerstner, direttore del Laboratorio di Neuroscienze, lo scienziato e musicista Florian Colombo ha sviluppato un algoritmo di intelligenza artificiale chiamato DAC (“Deep Artificial Composer”) che ha la capacità di produrre melodie complete e del tutto nuove, con una serie di caratteristiche che le apparentano agli stili musicali su cui è stata condotta la sperimentazione, gli stili klezmer e irlandese appunto.

Un aspetto interessante è il fatto che DAC non sia stato costruito dotandolo di conoscenze di teoria musicale. Come spiega un articolo nel sito del Politecnico di Losanna, DAC ha lavorato esclusivamente su un largo database di musiche esistenti, producendo melodie originali senza alcun intervento umano di post produzione. L’algoritmo, in particolare, estrae la struttura essenziale di una musica imparando come un dato pezzo musicale passi da una nota a quella successiva, e calcola la probabilità del tono e della durata di quella nota. DAC poi si allena su numerose partiture musicali, per accrescere la sua abilità di predire correttamente il tono e la durata della nota che segue.

In questo modo l’algoritmo apprende le regole di quel genere musicale per conto proprio. Una volta completato il training, esso può generare nuove melodie, una nota alla volta, e determinare da solo se sono abbastanza originali comparando le frasi musicali che ha generato con i pattern esistenti nel suo database di melodie dello stesso genere. “A mia conoscenza – nota Colombo – questa è la prima volta che un modello di reti neurali artificiali è stato usato per produrre melodie complete e convincenti.” È degno di nota che DAC offra anche uno strumento per valutare l’originalità di un pezzo, cosa utile per combattere il plagio (École Polytechnique Fédérale de Lausanne, 2017).

Quali le finalità dell’esperimento? Sebbene generato inizialmente su due stili specifici, la musica klezmer e quella irlandese, non ci sono limiti quanto agli altri stili sui quali potrebbe essere modellato. Le applicazioni possibili vanno dalla creazione di colonne musicali per film o videogame al fornire un aiuto ai compositori nel loro processo creativo. Questo caso consente di aggiungere una voce alla lista di applicazioni di intelligenza artificiale proposta al paragrafo precedente. Al tempo stesso, segnala la via per riflettere sui possibili contributi dell’AI allo storytelling.
Nell’esperimento del Politecnico di Losanna, DAC risulta in grado di leggere gli spartiti musicali per individuare dei pattern, apprendere (a modo suo) le regole di composizione musicale, e quindi, senza che alcun umano intervenga, ideare delle musiche nuove a buon diritto rientranti in un certo genere. Dal punto di vista logico o tecnologico, non vi sono ragioni per ritenere che un processo simile non possa essere implementato anche per la creazione di storie.

Certamente, il linguaggio umano (basato su una ventina di lettere o suoni) è più articolato e complesso del linguaggio musicale (basato su sette note). Ma anche quello della musica è un linguaggio pieno di sfumature e sottigliezze. E, sul terreno dell’intelligenza delle macchine, le problematiche di numero o complessità sono quasi irrilevanti e tanto più lo diventeranno in futuro. Nel mondo dello storytelling, infatti, l’interesse per questi sviluppi è molto elevato e, non a caso, le sperimentazioni si stanno moltiplicando.

3. Validazione di sceneggiature

Prima di arrivare a ideare storie nuove – è ragionevole pensare – le macchine dovrebbero intendersi di percorsi narrativi. A che punto siamo da questo punto di vista? Qual è cioè la capacità dell’AI di riconoscere se una storia è buona o no, di vagliarne il potenziale d’attrazione? Un articolo di Variety la dice lunga sul tema. Il pezzo riporta di Script- Book, una start-up fondata nel 2015 ad Antwerp, Belgio, che ha sviluppato uno strumento per analizzare le sceneggiature dei film e predirne il successo, con un tasso di attendibilità tre volte superiore a quello degli analisti umani (Variety, 2018). Come funziona lo strumento? Esso si basa sull’AI e il machine learning, in un processo in cui il software è inizialmente istruito da umani e poi autonomizza il suo percorso di apprendimento utilizzando grandi database di sceneggiature già scritte, di cui è noto il successo o l’insuccesso al botteghino.

In concreto, per vagliare una determinata sceneggiatura basta caricare il relativo PDF nel sistema. Circa cinque minuti dopo, l’utente riceve un’analisi dettagliata dello script che, tra le altre cose, predice le emozioni legate ai suoi protagonisti e antagonisti, la target audience (definita anche per genere ed etnicità), e soprattutto il grado di successo al box office. Quanto sono valide queste previsioni? Secondo la fondatrice di Scriptbook, Nadira Azermai, se tra il 2015 e il 2017 Sony avesse utilizzato il suo algoritmo anziché persone per l’approvazione dei progetti di film avrebbe risparmiato una montagna di denaro. Il software di Scriptbook infatti è stato in grado di identificare retrospettivamente 22 dei 32 film di Sony che sono risultati dei flop in quel periodo (dopo aver ricevuto luce verde da screening tradizionali svolti tramite esperti, focus group e ricerche di mercato).

Il sistema è ancora agli esordi, ma qualcuno lo ritiene promettente visto che Scriptbook è già stato in grado di raccogliere 1,4 milioni di dollari in venture capital. Nel febbraio 2018 la start-up ha anche ricevuto un “Seal of Excellence” da parte della Commissione Europea nell’ambito del programma Horizon 2020. Nella visione di Azermai, di cui il sito di Scriptbook riprende un’intervista con CNN, il sistema non è volto a prendere il posto dei distributori umani che devono valutare l’interesse potenziale di un film, ma mira a supportare il loro intuito basato sull’esperienza con metriche più oggettive.

Data la sua giovane età, Scriptbook può essere ritenuto un approccio sperimentale. Ma il titolo dell’articolo di P. Caranicas su Variety mette le cose in prospettiva: “Artificial Intelligence Could One Day Determine Which Films Get Made” (2018). Come esattamente funzioni l’algoritmo di Scriptbook non è dato sapere. Il principio è comunque analogo a quello del sistema descritto nel paragrafo precedente con riferimento alla musica klezmer: se nutriti con ampie quantità di dati, gli algoritmi possono costruire tramite il machine learning le competenze per fare cose che fino a tempi molto recenti facevano solo gli umani. Nel caso del software del Politecnico di Losanna, ciò arriva fino al comporre pezzi di musica originali; nel caso del software di Scriptbook, per ora, il sistema giunge a una capacità decisamente notevole di validare o invalidare le storie. Quanto è distante la validazione delle storie dalla loro ideazione? Sebbene questo non sia un problema che si pone al momento Scriptbook, è indubbio che l’identificazione da parte dell’AI dei requisiti di successo di una storia sia un notevole passo avanti sul cammino che può portare le macchine allo stadio di contribuire direttamente al processo creativo. Un altro passo è indicato al paragrafo seguente.

4. Il miglior trailer

La funzione dei trailer nel mondo della cinematografia e della televisione non è da poco. Da essi dipende in buona misura quante persone andranno a vedere un film o si metteranno di fronte al teleschermo all’ora giusta. Se il trailer è ben fatto, riesce a catturare l’interesse dello spettatore attraverso una selezione particolarmente riuscita dei nuclei narrativi essenziali, capace di rendere il senso del film senza rivelarne la conclusione.
Tenuto conto che un film può durare due ore e un trailer deve riassumerne la storia in poco meno di un minuto, si tratta di un bell’esercizio, che fino a ora è stato affrontato con le consuete skill umane basate sull’esperienza. Ma anche in quest’ambito le cose stanno cambiando.

In un video disponibile in rete Nancy Pearson, Marketing VP in IBM per il Cognitive Business, racconta di Watson, il super computer di IBM attivo oggi su una quantità di fronti, e del lavoro che sta facendo nel campo dello storytelling. Anzitutto, che cosa è Watson precisamente? Si tratta di un sistema che capisce, ragiona, impara e interagisce con gli umani, e che negli ultimi anni ha incluso crescentemente elementi come visione, emozione e sentiment analysis. Ma che cosa c’entra con i trailer? C’entra perché, come spiega Pearson nel video (che risale al 2016), Watson ha lavorato di recente con Fox per sviluppare il trailer ottimale.

Quello che Watson ha fatto in particolare è stato analizzare un intero film, a livello di testo e visual, e fare sentiment analysis ed emotion analytics di tutti i suoi passaggi, curando le componenti di maggior impatto emozionale e offrendo quindi le sue raccomandazioni su come realizzare il trailer. I task che Watson è in grado di assolvere, si badi bene, sono su una scala di grandezza che è al di là delle capacità di qualunque essere umano. Per un cliente di IBM, per esempio, Watson ha svolto un lavoro in cui ha elaborato 800 milioni di documenti ogni 5 secondi. Potendo trattare sia testi sia immagini e filmati, si comprende come anche sul terreno dello storytelling questo sistema abbia grandissime potenzialità, tutte da esplorare.

È degno di nota comunque che, pure dalla prospettiva di Nancy Pearson, il contributo di Watson vada inquadrato soprattutto come supporto alla creatività di sceneggiatori e registi. Watson può dare suggerimenti e nuove idee per lo sviluppo di un plot o di un’altra serie di filmati, studiando ogni genere di opzione e uscendo dalle soluzioni consuete e prevedibili; ma non produce nuove sceneggiature in modo autonomo. Ne deriva che i migliori risultati nell’uso di Watson sono raggiungibili attraverso felici integrazioni tra uomo e macchina.

La capacità di Watson di lavorare sui trailer induce a pensare. Ciò che caratterizza i trailer è la loro breve durata, e la necessità di condensare in pochi secondi gli elementi essenziali di una narrazione. Tuttavia una logica piuttosto simile riguarda la comunicazione commerciale, la quale deve anch’essa mirare al massimo coinvolgimento cognitivo ed emozionale ottenibile in tempi molto stretti. Questo rende il tema del rapporto fra storytelling e AI oltremodo rilevante anche per i marketer, i professionisti della comunicazione, e tutti coloro che si propongono di affrontare le storie di marca con uno sguardo attento agli sviluppi più recenti delle tecnologie.

Estratto di Storytelling e intelligenza artificiale. Quando le storie le raccontano i robotJoseph Sassoon, Franco Angeli, 2019, 15 euro. Scopri di più qui.

La foto in apertura è tratta da Flickr / chatbots

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