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Intervista a Cory Doctorow

L’intervista-ritratto pubblicata oggi su Chips&Salsa (Chips&Salsa-Il Manifesto del 28 Febbraio 2009).

Cory Doctorow: «Giù le mani dalla città digitale»
di Gabriele De Palma

OpenCola è una bibita unica nel suo genere: la ricetta è liberamente reperibile e modificabile. Chiunque può prepararla e migliorarla a patto di distribuire unitamente al prodotto modificato, la nuova ricetta. OpenCola è una evidente provocazione, un paradossale travestissment, una metafora per illustrare il modello di sviluppo del software open source. Nella fattispecie la Coca “aperta” è stata inventata per promuovere l’omonimo software p2p a codice aperto e rappresenta bene lo spirito di uno dei suoi ideatori, Cory Doctorow, scrittore di fantascienza, blogger, commentatore per prestigiose testate (da Wired a The Guardian) attivista politico che lotta alla frontiera della città digitale in cui bene o male, e spesso poco consapevolmente, viviamo tutti da qualche anno. E conduce la sua battaglia nel nome della condivisione del sapere e della difesa del progresso tecnologico ostacolato dall’avidità miope di certa industria. Apprezzato da Forbes, bibbia del capitalismo, che recentemente lo ha iscritto per l’ennesima volta tra le 25 personalità dl web (coloro che hanno saputo trasformare la propria passione in un impero mediatico), come dagli studenti dei college dove tiene corsi e conferenze (lui, mai laureato) sulla libertà digitale.

Cory parla a una velocità folle, riesce a infervorarsi su tutto e spesso cambia interessi e attività senza abbandonarne nessuno, semplicemente sovrapponendoli. I codici di programmazione hanno lasciato spazio a quelli legali quando, parlando con un avvocato in uno dei suoi frequenti viaggi aerei, realizzò che il sistema a tutela del diritto d’autore era andato in frantumi. «La conversione a trentamila piedi di altitudine», la chiama. Decise quindi di contribuire alla presa di coscienza collettiva che i formati di compressione digitale e internet avevano cambiato per sempre lo scenario dei contenuti d’autore e divenne presto responsabile europeo – lui canadese – della Electronic Frontier Foundation, ong che tutela i diritti dei cittadini della rete. Condivide in materia di copyright le stesse idee (no a lucchetti elettronici, durata ragionevole della protezione, libertà di condivisione) di altri illustri pensatori della Eff come Ed Felten, Lawrence Lessig e Siva Vaidhyanathan, ma le esprime in modo meno accademico. «La faccenda del peer-to-peer e della condivisione dei file – racconta a il manifesto – mi ricorda l’epoca vittoriana: allora la masturbazione era fuori legge. Un’azione compiuta dalla stragrande maggioranza delle persone veniva dichiarata illegale. La situazione è la stessa. Basta sostituire il piacere autoindotto con il file sharing». La sua idea di copyright è chiara: «Dovrebbe essere possibile scaricare un contenuto digitale a patto che non ci si lucri sopra. Se le case discografiche avessero semplicemente chiesto agli utenti di Napster di pagare una quota da ripartire tra gli artisti oggi avrebbero le tasche piene di soldi».

La coerenza tra parole e fatti è presto verificata, visto che Doctorow è anche uno scrittore: «Ho imparato a scrivere a macchina prima di sapere usare la penna, e credo che il mio modo di pensare sia strettamente connaturato alla tastiera qwerty». Pubblicò il suo primo racconto (il leggendario editore di fantascienza Tor, 2002) adottando, per primo, una licenza Creative Commons (CC) che permette di usare liberamente il testo senza sfruttarlo commercialmente. Ne mise in rete una versione gratuita e Down and Out in the Magic Kingdom fu molto letto e discusso. «Per un giovane scrittore è più semplice utilizzare le CC ma il principio è valido per tutti. Il problema, nell’attuale affollamento informativo, è raggiungere i lettori e non proteggerci da loro. Distribuendo gratis online il mio racconto ho moltiplicato il bacino di utenza». E’ il principio del dente di leone che si propaga ovunque. Con conseguente successo della stessa edizione cartacea. Per il volume successivo ha deciso di liberare anche il diritto di traduzione. Perché non già dal primo? «Quando fai un esperimento devi introdurre una variabile per volta. Volevo innanzitutto capire il valore dei fondamenti delle CC, poi, visti i buoni risultati ho inserito anche la possibilità di farne opere derivate. Grazie a questa clausola oggi i miei racconti sono tradotti in molte lingue, molte di più che se l’avessi blindata col copyright».

La maggior parte delle parole che digita sul suo portatile sono destinate non alla carta ma al suo (e di altri 4 autori) blog, Boing Boing, da sempre uno dei più visitati e influenti del web. Una collezione di mirabilia (“a directory of wonderful things”, recita il sottotitolo) con i post che variano da manifesti sulla libertà digitale a foto di curiosi oggetti fino a commenti di articoli sulle politiche di internet.

Un’anarchica bacheca di segnalazioni la cui unica trama è la personalità e l’estro momentaneo degli autori. «Non ci parliamo quasi mai prima di pubblicare un post, capiterà cinque volte all’anno. Ognuno pubblica quello che vuole». Un po’ di tempio fa ha massacrato il fenomeno dei social network, ironizzando sulla “chiusura” di molti servizi e sulla congenita natura transitoria di Facebook e simili. La piattaforma resiste fintanto che il tuo detestato ex-collega ti rintraccia; più si allarga più probabilità ci sono che ciò accada. A quel punto non ti resta che fuggire. La sua visione del futuro dei media è quella di una metamorfosi in cui tutto si contagia e muta ma in modi diversi. Come musica, libri e giornali anche per il futuro dei blog vale la stessa legge: «Alcune forme spariranno soppiantate da nuovi media, altri prolifereranno, tutto viene fagocitato e poi rigurgitato in forme nuove».
Recentemente si è scagliato contro il piano del governo inglese per lo sviluppo di internet che prevede: lucchetti elettronici per i contenuti (Drm) e controllo da parte dei fornitori di connettività (Isp) su quel che passa dentro le loro reti. Tutto sbagliato secondo Doctorow, così si chiude internet. «Si consegna il web nelle mani incartapecorite dell’industria delle telecomunicazioni; qualsiasi tipo di filtro dei dati è fallace, sia esso elettronico o umano. I Drm non hanno mai funzionato. E’ tecnologicamente impossibile lasciarmi andare a casa con un film e impedirmi di duplicarlo sul pc. I computer copiano, e anche le parti del computer possono essere copiate. Così stanno le cose. Fine della storia». Magari, Cory.

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