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Verso Lawrence Liang: intervista su Chips&Salsa

Oggi su Chips&Salsa (inserto tecnologico del Manifesto/Alias), è stata pubblicata questa intervista con Lawrence Liang.

LA PIRATERIA LIBERA TUTTI
Il regime di proprietà intellettuale imposto dall’occidente è fragile. Parla l’intellettuale cino-indiano che predica il diritto di copia e non risparmia nemmeno i “riformatori” del copyright del mondo ricco come Lawrence Lessig.

di Gabriele De Palma

Viaggia molto Lawrence Liang. Di ritorno nella sua base di Bangalore da un workshop di quattro giorni a Delhi è pronto per arrivare in Italia. Il prossimo 29 marzo a Milano, in occasione del Meet the Media Guru, presso la Mediateca Santa Teresa porterà un punto di vista nuovo nel dibattito sulla proprietà intellettuale. Avvocato di formazione, pensatore per vocazione, cinese di origine, indiano per adozione Liang è molto attivo dal punto di vista sociale, ha fondato l’Alternative Law Forum che offre assistenza legale a chi non se lo può permettere o è vittima di discriminazione. Il suo punto di vista mescola le riflessioni dei più autorevoli pensatori occidentali in tema di diritti d’accesso alle informazioni e di proprietà intellettuale a una critica marxiana («Marx filosofo, non politico» ci tiene a chiarire) e alla prospettiva “orientale” da cui osserva le cose, eredità ambientale del vivere tra Cina e India, dove lo sviluppo tecnologico è spontaneo, consistente e incontrollabile. Sono le sue opinioni in materia di “pirateria” a suscitare più clamore e a segnare la differenza nel dibattito in corso, opinioni che lo distanziano anche da un suo stimato collega come Lawrence Lessig, punto di riferimento in occidente per coloro che chiedono una riforma del copyright più consona all’era digitale. «Sono un grande ammiratore di Lessig. Sono in disaccordo – ci spiega – solo nella misura in cui abbiamo diverse provenienze geografiche. I Creative Commons (iniziativa di cui Lessig è promotore, ndr) sono importanti ma dissento da come considera l’uguaglianza dei mezzi di produzione culturale. In molti sensi il lavoro di Lessig è dipendente dall’idea di trasformazione d’autore: le persone che scaricano e remixano prodotti altrui creano nuove cose e dunque le leggi sulla proprietà intellettuale devono consentire queste pratiche. Ma nella sua riflessione non viene riconosciuta la novità nella pirateria commerciale, che è considerata sola mera riproduzione. Io distinguo invece tra infrastruttura e contenuto e poi cerco di capire come interagiscono tra loro: in realtà ogni forma di pirateria non prescinde dalla trasformazione nella misura in cui muta il supporto su cui viene fruito il contenuto».

In un recente articolo citi il caso di una copia pirata di Kill Bill, coi sottotitoli sbagliati perché tradotti non dal testo ma dal sonoro di un’anteprima senza sottotitoli circolata nelle reti p2p. Il prodotto finale cambia anche se a volte in modo quasi impercettibile e non desiderato. Accade ogniqualvolta si copia?
«Ogni atto di riproduzione o di copia è una trasformazione. La trasformazione può essere a livello del contenuto in sé o a livello dell’impatto sull’infrastruttura della produzione culturale. A me interessa quest’ultimo aspetto che è poi una precondizione della trasformazione creativa vera e propria».

Argomenti che non incontrano un grande successo nemmeno nei circoli più liberali del dibattito occidentale. Un limite geografico?
«L’intera questione dell’accesso è impostata da un punto di vista pedagogico, e si riduce a come rendere più edotte le persone emarginate dando libri di testo, opere d’arte o tecnologie e stabilendo quali devono essere accessibili. Io però preferisco guardarla da un altro punto di vista, abbastanza simile a quello di Jacques Ranciere (allievo di Louis Althusser, ndr): l’uguaglianza non può essere un punto d’arrivo, una destinazione finale: l’assunto è che tutti partecipiamo della vita intellettuale e quindi si va dall’eguaglianza all’eguaglianza. Tutti viviamo vite intellettuali e da questo punto di vista siamo uguali, i mezzi per parteciparvi però sono mal distribuiti».

La diffusione delle tecnologie però cambia lo scenario.
«La tecnologia a basso costo ha un potenziale radicale e altera la distribuzione dei mezzi di produzione culturale. Non è più questione di garantire l’accesso, il problema è cosa te ne fai dell’accesso, cosa capisci e come questo cambia la capacità di trasformazione della tua vita intellettuale. Ad esempio a Delhi ho appena concluso un workshop con un gruppo chiamato cybermuhallah, lavoratori giovani e senza mezzi che aspirano a diventare artisti. Lo scopo è capire l’interazione tra tecnologia e la vita intellettuale dei poveri. Una delle cose interessanti è che molti di loro ora pensano di cinema, attraverso il cinema, film di tutti i generi, dal neorealismo italiano, al cinema coreano contemporaneo. Considerano il cinema una risorsa per il pensiero. Spesso invece quando si parla di accesso il contenuto di cui si parla è esclusivamente pedagogico, manuali e libri, mentre molti degli scrittori dei cybermuhallah hanno abbandonato la scuola e non vogliono libri di scuola. Il punto è la differenza del modo in cui viene pensato lo sviluppo intellettuale tra paesi sviluppati e in via di sviluppo».

La storia sembra ripetersi, quello che accade oggi in India e in Cina è analogo a quello che accadde in America nel XIX secolo con i libri britannici fotocopiati allegramente, e ad inizio secolo con la nascita di Hollywood. Poi da quando gli Usa sono diventati una potenza della proprietà intellettuale hanno mutato atteggiamento e si sono fatti meno permissivi.
«Non solo l’industria culturale, anche l’altra industria. C’è un bel saggio dello storico Doron Ben Attar sulla storia del termine yankee, che viene dall’olandese “pirata”, in cui dimostra che lo sviluppo industriale statunitense è stato possibile grazie alla pirateria tecnologica ai danni dell’Europa e all’infrazione delle restrizioni alla circolazione di idee e tecniche poste dall’avanzato vecchio continente. Gli europei infastiditi dai furti iniziarono a chiamare gli statunitensi indistintamente yankee».

Ma non c’è il rischio che Cina e India seguano la stessa strada?
«Il rischio esiste ma con alcune differenze. Una in particolare mi sembra sostanziale ed è inerente al collasso del tempo. La rivoluzione industriale ha avuto tempi lunghi, è durata diverse generazioni. Nell’era digitale il tempo collassa, e il ripetersi del ciclo è ostacolato da due fattori: innanzitutto il fatto che il digitale vive nella copia e crea una cultura della copia, poi il tempo intragenerazionale in cui ciò avviene e per cui è difficile creare una consapevolezza diffusa del concetto di proprietà intellettuale».

In effetti, guardando i numeri, quella degli avvocati della proprietà intellettuale sembra una guerra già persa: un pochi-contro-troppi in un ambiente tecnologicamente ostile.
«Spesso le persone parlano del Wto e del regime di proprietà intellettuale globale come di una cosa molto potente, io credo invece che sia molto fragile. L’unico modo in cui la finzione della proprietà intellettuale può essere salvaguardata è attraverso le forze di polizia e l’effetto deterrente da queste suscitato. Esattamente come accade con le finzioni dei confini, mantenute solo con la forza. È un’infrastruttura estremamente precaria che richiede un esercito enorme per essere controllata. Il fatto che le sue origini siano determinate da una netta diseguaglianza politica e conomica è molto evidente, i Trips sono stati scritti da una dozzina di avvocati rappresentanti dell’industria dell’entertainment statunitense. E anche a quel livello ci sono molte contraddizioni interne come ad esempio il fatto che il sistema multilaterale, inizialmente adottato per forzare il regime di proprietà intellettuale, adesso permette a Brasile, India e Cina di far sentire la propria voce. E ora gli Usa ripiegano su accordi bilaterali o trattati estremamente segreti come Acta».

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